VEDERE LA MALATTIA DI ALZHEIMER CON LA RISONANZA MAGNETICA

Alzheimer. Un nome che fa paura. Fa paura perché colpisce memoria e intelligenza, le caratteristiche della mente in cui risiedono la nostra storia personale, le nostre peculiarità di uomo e di donna, il nostro percorso di crescita umana e professionale. Fa paura perché non vi è guarigione e le cure sinora sviluppate danno benefici solo temporanei. La malattia di Alzheimer colpisce circa mezzo milione di persone in Italia e porta persone in pieno benessere a uno stato di completa non autosufficienza (allettate incontinenti e completamente inconsapevoli dell’ambiente) nel giro di pochi anni, con le immaginabili sofferenze personali e familiari. Riconoscere la malattia negli stadi iniziali – quando vi sono solo minime dimenticanze – è fondamentale per attivare interventi che possono ritardarne la progressione. Alcuni anni guadagnati nel periodo della vita in cui solitamente si sviluppa la malattia (oltre i 70-75 anni) possono essere estremamente preziosi. Purtroppo, sino ad oggi non vi sono esami in grado di rilevare con certezza i danni della malattia a carico del cervello. E’ noto che nella malattia di Alzheimer si verifica la deposizione in alcune piccole ma strategiche zone del cervello di sostanze tossiche (amiloide e proteina tau) che portano alla morte delle cellule nervose e alla perdita dei collegamenti fra cellula e cellula. Le zone colpite sono quelle in cui si fissano i ricordi – motivo per cui i primi sintomi della malattia sono le dimenticanze. La risonanza magnetica è in grado di visualizzare il cervello con grande precisione: anche perdite di sostanza cerebrale delle dimensioni della capocchia di un fiammifero possono essere evidenziate dall’esame. Il problema però che sino ad ora ha impedito di utilizzare questa tecnica per aiutare nella diagnosi risiede nell’estrema variabilità della struttura cerebrale fra persone diverse. E’ infatti estremamente difficile riconoscere se una sottile variazione di struttura cerebrale sia una anomalia causata dall’incipiente malattia o semplicemente una normale variante fisiologica. Un gruppo di ricercatori dell’Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico di Brescia San Giovanni di Dio Fatebenefratelli ha riferito di un significativo avanzamento che potrebbe permettere di rispondere a questo quesito e di utilizzare la RM per scoprire se il cervello di un paziente alberga anche in misura molto iniziale i segni della malattia. I ricercatori – guidati dal neurologo Giovanni Frisoni – hanno diviso l’immagine del cervello di una serie di persone con disturbi di memoria in tanti (circa 4.000.000) piccoli cubi (detti “voxel”) delle dimensioni di 1 mm di lato. Con l’aiuto di avanzati programmi statistico-matematici e di potenti calcolatori elettronici, hanno deformato la risultante immagine in modo che si adattasse perfettamente a quella di un cervello normale. A questo punto è stato possibile paragonare il segnale di ogni voxel del cervello dei pazienti con disturbo di memoria con il segnale del voxel corrispondente del cervello delle persone normali. Poichè il segnale di ogni voxel indica la quantità di sostanza cerebrale, una riduzione del segnale è indicativo della perdita di sostanza cerebrale tipica della malattia di Alzheimer. In questo modo, i ricercatori hanno dimostrato che i pazienti con disturbo di memoria avevano perso sostanza cerebrale proprio nelle regioni del cervello che sappiamo essere colpite dalla malattia (vedi figura). La scoperta è stata comunicata il 19 aprile al congresso dell’American Academy of Neurology, il congresso neurologico di maggiore prestigio a livello mondiale, tenutosi in questi giorni a Denver, nel Colorado e che ha visto la partecipazione di circa 3000 neurologi convenuti da tutto il mondo. Allo studio italiano è stato dato particolare rilievo congressuale essendo stato selezionato fra quelli di maggior rilievo nell’ambito di tutte le ricerche sull’invecchiamento e la malattia di Alzheimer. Durante il congresso è stato presentato anche un altro studio condotto presso l’Istituto Fatebenefratelli, condotto nel laboratorio di Neurobiologia, che identifica il meccanismo che conduce alla produzione della sostanza tossica responsabile dei danni cellulari della malattia di Alzheimer e contro la quale dovrebbero essere sviluppati farmaci terapeutici. Il meccanismo coinvolge una proteina chiamata BACE-2, enzima normalmente presente nel cervello che, per motivi ancora sconosciuti, nei malati di Alzheimer inizia a lavorare a ritmi superiori a quelli fisiologici, conducendo alla deposizione di beta-amiloide. L’eccessiva produzione di beta-amiloide ne comporta una difficoltosa rimozione da parte dei sistemi che nel cervello fungono fisiologicamente da “spazzini”. L’accumulo di beta-amiloide porta poi a sofferenza e morte delle cellule nervose. L’identificazione dell’enzima BACE-2 è preliminare allo sviluppo di farmaci che ne blocchino l’attività e arrestino quindi la progressione della malattia. L’impegno di ricerca dell’Istituto Fatebenefratelli è quindi a tutto sesto nella malattia di Alzheimer. “L’obiettivo finale dei nostri sforzi – spiega Frisoni è di identificare la malattia in fase estremamente precoce, quando il disturbo di memoria è ancora molto lieve o ancor prima, per intervenire con farmaci che arrestino la malattia e permettano alla persona di vivere il resto della vita in buona efficienza mentale”. Attenzione però, avvertono i ricercatori, questa possibilità non è dietro l’angolo. Saranno necessari ancora 10 o 20 anni di lavoro da parte di migliaia di ricercatori in tutto il mondo prima che questa prospettiva diventi realtà. L’IRCCS San Giovanni di Dio è un Istituto di cura e ricerca finanziato dal Ministero della Salute ed è l’unico in Italia la cui missione è rivolta specificamente alla malattia di Alzheimer. Nel 1991 è stato il primo centro nazionale a sviluppare, grazie a un progetto sperimentale della regione Lombardia, paradigmi innovativi di diagnosi e cura della malattia di Alzheimer e delle altre malattie dell’anziano che colpiscono memoria e capacità intellettive. Alla missione per la malattia di Alzheimer unisce quella di cura e studio delle malattie psichiatriche dell’età giovanile e adulta quali schizofrenia e depressione. E’ sede di uno degli ambulatori (Unità di Valutazione Alzheimer – UVA) in cui possono venire gratuitamente dispensati e prescritti i costosi farmaci per la malattia di Alzheimer da circa due anni erogati dal Servizio Sanitario Nazionale. Attualmente sono curati in regime ambulatoriale circa 4000 e di degenza circa 600 pazienti l’anno. 

Figura: le regioni del cervello colpite dalla malattia di Alzheimer come sono viste dalla Risonanza Magnetica.




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