La nostra è un’epoca di grandi tecnologie. Le automobili, i telefoni, i televisori sono sofisticatissimi congegni meccanici e elettronici. La tecnologia non risparmia nemmeno il campo della salute. La diagnosi più accurata e la terapia più efficace sono quelle che si affidano all’ultimo ritrovato della tecnica – che di solito è anche il più costoso, raro e complesso da effettuare. Questa sensibilità sociale è vera anche per le malattie dell’anziano come la malattia di Alzheimer.
Questa terribile infermità colpisce circa mezzo milione di persone in Italia – una città grande quanto Genova – e porta persone in pieno benessere a uno stato di completa non autosufficienza (allettate incontinenti e completamente inconsapevoli dell’ambiente) nel giro di pochi anni, con le immaginabili sofferenze personali e dei familiari. Riconoscere la malattia negli stadi iniziali è fondamentale per attivare interventi farmacologici e non che possono ritardarne la progressione. Alcuni esami ad alto contenuto tecnologico – come la risonanza magnetica e la tomografia a emissione di positroni – possono portare al corretto e accurato riconoscimento della malattia, ma si tratta di indagini non sempre facili da effettuare vuoi per liste di attesa spesso inaccettabilmente lunghe, vuoi perché richiedono l’iniezione di sostanze radioattive, vuoi per l’elevato costo al servizio sanitario nazionale. Poiché i primi sintomi della malattia sono molto frequenti negli anziani (minime dimenticanze e amnesie), sarebbe molto utile avere un esame innocuo, facile da effettuare e economico in grado di escludere con sicurezza che il paziente è stato colpito dalla malattia. Se poi questo esame risultasse positivo – ovvero confermasse il sospetto di una malattia di Alzheimer – sarebbe sempre possibile accedere agli esami più complessi e impegnativi.
Sul numero di gennaio dell’American Journal of Neuroradiology, l’organo ufficiale dell’associazione americana di neuroradiologia, un gruppo di medici bresciani ha recentemente riportato i risultati di una loro ricerca che indica che la chimera di un esame innocuo, facile da effettuare e economico in realtà esiste e ha un nome molto familiare: TAC, o tomografia computerizzata come è chiamato in gergo tecnico. “Non abbiamo scoperto nulla di drammaticamente nuovo” spiega modestamente Giovanni Frisoni, neurologo e leader del gruppo di lavoro del Centro Alzheimer dell’Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS) San Giovanni di Dio dei Fatebenefratelli di Brescia “abbiamo semplicemente sistematizzato alcune conoscenze vecchie di anni”.
La TAC è usata dai medici da oltre vent’anni per vedere con i raggi X ciò che l’occhio del medico non riesce, ovvero la struttura delle parti interne del corpo umano. L’esame è di tale utilità che ormai praticamente ogni ospedale e clinica ne è dotato. “Lo sviluppo di macchine più recenti e sofisticate, come le citate risonanza magnetica e tomografia a emissione di positroni” prosegue Frisoni “ha portato i medici a considerare con una certa sufficienza questo esame”. Come una scarpa vecchia che si usa solo nel fango quando piove? “Più o meno. Solo che questa è una scarpa vecchia che può fare ancora un servizio egregio e merita di essere pulita e lucidata. Fuor di metafora, ciò che abbiamo fatto è di cercare con la TAC quelle alterazioni nel cervello che si pensava si potessero vedere solo con la risonanza magnetica o la tomografia a emissione di positroni, ovvero la perdita di neuroni in una piccola regione cerebrale grande quanto una mandorla, l’ippocampo”. La caparbia dei medici bresciani è stata premiata: il gruppo di studio ha dimostrato che se l’esame viene effettuato con semplici accorgimenti tecnici, alla portata di tutte le macchine attualmente in uso, è possibile misurare molto semplicemente la perdita atrofica di neuroni nell’ippocampo, segnale sensibile di una malattia di Alzheimer in corso. La soddisfazione dei ricercatori è aumentata dal fatto che lo studio è comparso su una rivista americana. “Non è stato facile convincere i colleghi americani – da sempre molto orientati in senso ipertecnologico – che si può fare ovunque con mezzi semplici e economici quanto di solito viene fatto con grande dispendio di mezzi e risorse in centri di alta specializzazione” spiega Frisoni. Ma alla fine l’evidenza ha convinto anche i ricercatori d’oltreoceano.
L’importanza della scoperta per il malato non può sfuggire. Se la diagnosi di malattia di Alzheimer può essere fatta accuratamente anche senza strumenti ipercostosi e ipertecnologici, non è moralmente accettabile che ancora migliaia di persone in Italia siano colpite dalla malattia ma non siano riconosciute e quindi non curate. Anche se questa scoperta – come tutti gli avanzamenti della scienza – è un piccolo passo rispetto alla tanta strada da percorrere per alleviare le sofferenze dei malati, è di buon auspicio che giunga all’inizio di un anno nel quale “nulla è più come prima”.
L’IRCCS San Giovanni di Dio è un Istituto di cura e ricerca finanziato dal Ministero della Salute ed è l’unico in Italia la cui missione è rivolta specificamente alla malattia di Alzheimer. Nel 1991 è stato il primo centro nazionale a sviluppare, grazie a un progetto sperimentale della regione Lombardia, paradigmi innovativi di diagnosi e cura della malattia di Alzheimer e delle altre malattie dell’anziano che colpiscono memoria e capacità intellettive. Alla missione per la malattia di Alzheimer unisce quella di cura e studio delle malattie psichiatriche dell’età giovanile e adulta quali schizofrenia e depressione. E’ sede di uno degli ambulatori (Unità di Valutazione Alzheimer – UVA) in cui possono venire gratuitamente dispensati e prescritti i costosi farmaci per la malattia di Alzheimer da poco più di un anno erogati dal Servizio Sanitario Nazionale. Attualmente sono curati in regime ambulatoriale circa 4000 e di degenza circa 600 pazienti l’anno.
|